mercoledì 26 ottobre 2011

Novità da Blockbuster. Cosa vedere e cosa no

Da vedere

La donna che canta
di Denis Villeneuve
con Lubna Azabal, Maxim Gaudette, Remy Girard
Drammatico, 120 min., Canada, 2010
****

C’è tutto. Ma per poterlo comprendere fino in fondo bisogna avere una minima infarinatura della guerra del Libano e dei conflitti mediorientali (per questo consiglio la visione di Valzer con Bashir di Ari Folman, 2009). Uno dei film più belli e sconvolgenti degli ultimi anni.


Evitabili

Con gli occhi dell’assassino
di Guillem Morales
con Belen Rueda, Luis Homar, Pablo Derqui
Horror, 112 min., Spagna 2010
**

Qualche buona intuizione a livello tecnico. Per il resto molti riferimenti a film come Psycho, Profondo rosso e The Eye. Dopo la coppia Jaume Balaguerò e Paco Plaza (Rec, 2007), un altro regista spagnolo dimostra che è sulla suspense e non sulla truculenza che bisogna puntare per riuscire a rinnovare ulteriormente il genere horror.

Hanna
di Joe Wright
con Cate Blanchett, Eric Bana, Saoirse Ronan
Thriller, 111 min., Usa, Gran Bretagna, Germania, 2011
**

Stereotipi su stereotipi su stereotipi (c’è anche il killer che fa roteare sul palmo della mano due sfere d’acciaio) per una sagra del “già visto” a metà tra Mission Impossible e la saga di Jason Bourne. La differenza è che qui chi ci sa fare con le armi è una ragazzina. Da notare la colonna sonora dei Chemical Brothers.

venerdì 21 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. This Must Be the Place di P. Sorrentino

This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton
Drammatico, 118 min., Italia, Francia, Irlanda, 2011

L’11 ottobre scorso Antonio D’Orrico, il Fabio Fazio del «Corriere della Sera» (sì, perché come il conduttore di Che tempo che fa anche lui è entusiasta di tutto quello che recensisce), ha pubblicato nel sito online della testata di via Solferino un articolo dal titolo roboante: Quello che non dimenticherò mai di Sorrentino. Il pezzo, dal sottotitolo ancora più altisonante (Le 19 cose imprescindibili di This Must Be the Place), propone una lista di 19 particolarità che dovrebbero farci ricordare per sempre della pellicola in questione. Il problema, però, è che D’Orrico ha compiuto due gravissimi errori: ha portato lo spettatore completamente fuori strada; non ha aiutato il regista ad aprire gli occhi. Sì, perché This Must Be the Place è un film che inizia benino ma finisce veramente male, in un crescendo di errori tanto palesi quanto ingenui. Dal regista del Divo non ce lo saremmo mai aspettato. Quindi ora, per rendergli un servizio e per tentare di riparare agli errori del giornalista, proporrò di seguito la vera lista di motivi per cui ci dimenticheremo prest(issim)o di questo film.

1) Tipologia di film. Road movie? Sicuramente no. Film di formazione? Potrebbe, ma il percorso di maturazione del protagonista non si vede.

2) Trama. Nella prima parte del film ci viene presentato Cheyenne (Sean Penn), un’ex rockstar usurata dagli stravizi del passato che vive in una villa irlandese con la sua amata moglie e passa le giornate tra la noia e l’apatia. Fino a questo punto (contrariamente a quello che potrebbe far pensare l’esilità della trama) l’interesse dello spettatore viene stuzzicato da una miriade di domande che sorgono spontanee: chi è veramente Cheyenne? Chi si nasconde dietro la sua maschera? Perché, lui che è una rockstar, ama così tanto la moglie e le è fedele? Perché non ha avuto figli? Dov’è la sua famiglia? Ecc. Tutto cambia dopo che il protagonista viene raggiunto dalla notizia dell’aggravarsi della malattia del padre e decide di spostarsi negli USA alla ricerca di un aguzzino nazista. Qui inizia infatti una sorta di seconda parte simil on the road in cui vengono celermente risolti tutti gli interrogativi che ci avevano fatto affezionare al protagonista. Così il suo alone di mistero svanisce e del suo futuro non ce ne può più fregar di meno.

3) Temi trattati. Purtroppo (e dico purtroppo perché dal primo film internazionale di Sorrentino ci aspettavamo molto di più) viene detto poco se non addirittura niente. Quel poco che viene detto (come il rapporto padre/figlio) o viene trattato male o è addirittura già stato approfondito (e meglio) in altre pellicole.

4) Dialoghi. I dialoghi sono assolutamente irreali (addirittura più del personaggio Cheyenne), con frasi slegate tra loro che sembrano aforismi da biscotto della fortuna. Per un po’ il giochino funziona, poi diventa ridondante.

5) Regia. Dal regista del Divo tutti si aspettavano il botto. E invece Sorrentino passa da scene inutili (v. il concerto di David Byrne) a sequenze alla Sofia Coppola (ma illogiche e/o venute male). Carina la fotografia, ma ormai a certi livelli è la regola. Stucchevoli le scene della donna a mollo nella piscina e della band che suona nel centro commerciale con i passanti che muovono la testa a tempo di musica.

6) Protagonista. Il personaggio che Penn ha dovuto interpretare (lo ha fatto con talento) è e rimane una macchietta. Infatti, come recita la pagina di Wikipedia, un personaggio per essere ben riuscito deve mostrare tre diverse facce: come sembra, com’è in realtà e come diverrà (lungo l’arco della storia). La macchietta, invece, ha una sola faccia: il come sembra. Cheyenne è quindi un personaggio piatto, non approfondito psicologicamente.

7) Artifici narrativi. I ralenti sono scontati e sicuramente non epici, il montaggio sconclusionato. Inclassificabile, invece, il rapporto musica/immagini, sfruttato come peggio non si potrebbe.

8) Il finale. Per ovvi motivi non lo espliciterò. Vi basti sapere che è inutile, privo di pathos e puerile.

Qualcosa di buono rimane in quella che sembrerebbe essere una valle di lacrime? Sì. Come già accennato la prima parte del film, con le sue domande, e la recitazione di Penn. Poi una scena: quella del ping pong.

Voto: 2/5

(Film visionato il 19 ottobre 2011)

domenica 16 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. Final Destination 5 di S. Quale

Final Destination 5 (3D)
di Steven Quale
con Nicholas D’Agosto, Emma Bell, Miles Fisher
Horror, 92 min., Usa, 2011

Il copione si ripete per la quinta volta. Un ragazzo ha una premonizione, grazie a questa riesce a salvare sé stesso e qualche altro amico da una catastrofe, ma così facendo cambia il disegno della morte e allora quest’ultima li rincorre e cerca di farli fuori tutti nella sequenza in cui nella premonizione li aveva sottratti alla vita. A livello di trama, nulla è cambiato dal primo capitolo della serie.

Final Destination 5, però, riesce a fare un passo in avanti. Final Destination 5 riesce laddove il 4 (anch’esso in 3D) aveva fallito e fa compiere al genere un salto di qualità. Il che, data la situazione in cui versano i film horror/splatter, non è poco.

I suoi punti di forza sono almeno due. In primis le coincidenze negative che portano alla morte dei vari personaggi sono sempre più imprevedibili e benché si sappia che qualcosa di veramente brutto accadrà non si sa né quando né come. Ed è così che la tensione è crescente e finisce con il non mancare quasi mai. In secondo luogo c’è il vero valore aggiunto del film, un asso nella manica che molti registi non sono riusciti a sfruttare: il 3D. Steven Quale, già supervisore degli effetti speciali di Avatar, ha superato di gran lunga lo scadente risultato in tre dimensioni del film con gli omoni blu e qui è invece riuscito a dare vita ad una prospettiva veramente “da paura” che (finalmente) riesce a dare allo spettatore l’illusione di partecipare alla vicenda. Come se non bastasse il realismo delle tragedie è accresciuto dai numerosi dettagli tridimensionali che abitano la scena e da particolari anatomici assolutamente realistici.

In poche parole un film già visto che però, grazie alla tecnologia, riesce ancora a stupire proprio grazie a quel 3D che ormai rischiava di diventare un semplice escamotage per alzare il prezzo dei biglietti.

P.s. Non si può considerare la possibilità di guardare e recensire questo film senza averlo visto al cinema in tre dimensioni. Sarebbe come andare a fare una passeggiata al parco invece di fare un giro sul Blu Tornado.

Voto: 2½/5

(Film visionato il 12 ottobre 2011)

martedì 11 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. Drive di N.W. Refn

Drive
di Nicolas Winding Refn
con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Albert Brooks
Thriller, 95 min., Usa, 2011

Non stupisce che Nicolas Winding Refn sia uno dei registi più corteggiati da Hollywood. Ed infatti il suo film fa sorgere il dubbio che sia una sorta di novello Quentin Tarantino. «Come?», direte voi. Non mi riferisco tanto allo stile, anche perché a Refn sembra mancare la capacità tarantiniana di dare vita a dialoghi tanto spassosi quanto sconclusionati, quanto alla sua maestria nel dare vita ad un film pieno zeppo di citazioni. «Ma è tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis!», esclamerete. Sì, ma non è detto che la trasposizione cinematografica non possa cogliere l’occasione per riproporre alcuni meccanismi che su celluloide hanno dimostrato di funzionare egregiamente.

Ed è così che in Drive si possono ritrovare le caratteristiche di almeno quattro o cinque film famosissimi e ormai consolidati nella tradizione cinematografica mondiale. Due di questi, poi, sembrerebbero proprio essere la base dell’intera storia. Questi sono Leon (Luc Besson, 1994) e A History of Violence (David Cronenberg, 2005). Del primo ritorna il rapporto “platonico” tra un killer e una donna (ma qui già sposata e con un bambino), con quest’ultima che risveglia nel protagonista il sentimento d’amore. Del secondo invece viene ripreso quasi in toto l’impianto: in un crescendo di violenza abbiamo un personaggio dal passato oscuro che sa però come uccidere e lo fa con chirurgica precisione (ma là Viggo Mortensen era egregio, qua Ryan Gosling è troppo poco credibile). Noi siamo spinti a chiederci: chi è?; come fa ad uccidere con quella maestria?; quale sarà il suo futuro? Come nel film di Cronenberg non ci è dato sapere.

Continuando con il gioco dei rimandi non stupisce poi che la pellicola si apra con una rapina, e qui è inutile elencare la lunga lista di film che principiano in questo modo (da ultimo Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, 2008), e finisca con un incidente che assomiglia a quello dell'inizio di Mulholland Drive (David Lynch, 2001). Come se non bastasse, a livello stilistico la musica e i continui ralenti sono una presenza costante. Ed è così che la mente torna alle Regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Certo, la scelta è funzionale a rendere epiche anche le scene di collegamento che rischierebbero di essere fiacche ma in questo modo il regista palesa il suo timore di non riuscire a tenere alta la soglia d’attenzione nello spettatore. Un (mal)celato segno di debolezza che dimostra quanto la storia sia in fondo già vista.

Dopo il Cigno nero di Darren Aronofsky (2010) avanti dunque con un’altra accoppiata film/regista che desidera più compiacere il pubblico in tutto e per tutto che proporre qualcosa di nuovo. In poche parole un ottimo prodotto senza cuore.

Voto: 3/5

(Film visionato il 7 ottobre 2011)

domenica 9 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. A Dangerous Method di D. Cronenberg

A Dangerous Method
di David Cronenberg
con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel
Drammatico, 93 min., Gran Bretagna, Germania, Canada, 2011

È vero che dopo due bellissimi film come A History of Violence e La promessa dell’assassino non ci si poteva aspettare che Cronenberg continuasse a sfornare un capolavoro dopo l’altro. Ma il suo ultimo film fa sorgere nello spettatore accorto troppi dubbi.

Per prima cosa A Dangerous Method non riesce a fotografare l’epoca in cui si svolge l’azione. Siamo nella Zurigo d’inizio XX secolo ma poco traspare dell’importantissima e feconda cultura mitteleuropea del periodo (magistralmente ricostruita invece nel Nastro Bianco di Michael Haneke, 2009). Già questo è molto grave perché le scoperte freudiane e junghiane rimangono orfane del contesto in cui sono state sviluppate. Come se non bastasse, lo spettatore che non possiede un’infarinatura di tali teorie non riuscirà a comprendere fino in fondo la querelle tra Freud e Jung e neppure come quest’ultimo riesce a curare con le scoperte del primo la giovane ebrea-russa Sabina Spielrein.

Che dire degli attori che li interpretano? A Viggo Mortensen non basta l’onnipresente sigaro per sembrare Freud, come non riesce ad essere fino in fondo nel personaggio Michael Fassbender, credibile nella prima parte del film ma troppo poco tormentato nel finale. Completamente inadeguata, invece, Keira Knightley troppo ostentatamente isterica per assomigliare alla sofferente Sabina Spielrein. Che dire delle situazioni? Immaginarsi un Jung che ad inizio secolo “sculaccia”(!) la Spielrein è veramente un insulto all’intelligenza dello spettatore e, come se non bastasse, gran parte dei dialoghi risultano troppo poco credibili per l’epoca. Discutibile anche la figura di Otto Gross (Vincent Cassel), che come una sorta di Lucignolo spinge l’amico e collega Jung nel vortice di sesso e trasgressione del rapporto adultero con l’ex paziente e futura collega Spielrein.

Qualcosa di positivo rimane? Sì, la scena di “medicina pionieristica” in cui Jung analizza la psiche della moglie tramite associazioni mentali e una sorta di proto-macchina della verità (potete vedere stralci della scena all’inizio del trailer). Come avete potuto capire la sceneggiatura di Christopher Hampton, basata su un suo lavoro teatrale del 2002, non regge più di tanto. Non siamo dunque poi così sicuri di imputare tutte le colpe a Cronenberg. Certo il tema aveva già mietuto una vittima: Roberto Faenza e il suo Prendimi l’anima.

Voto: 2½ /5

(Film visionato il 5 ottobre 2011)

venerdì 7 ottobre 2011

La Rai ha ucciso Passepartout e il paladino Daverio

Lo sappiamo, la notizia è vecchia. Ma è bene ricordare quanto sia autolesionista la Rai e il fatto che in futuro saremo tutti un po' più poveri (culturalmente oltre che economicamente). Di cosa stiamo parlando? Beh, lo potete capire dal titolo e dal video sottostante. Non ci sono proprio più parole. Rimane solo da tributare un umile, sentito e urlato «Grazie!» al grande Philippe.


sabato 1 ottobre 2011

Novità da Blockbuster. Cosa vedere e cosa no

Da vedere

The Next Three Days
di Paul Haggis
con Russel Crowe, Elizabeth Banks, Brian Dennehy, Olivia Wilde
Drammatico, 122 min., Usa, Francia, 2010
***

Insegnante di college (Russel Crowe) fa di tutto per cercare di far evadere la moglie dalla prigione. Ma lei è innocente o colpevole? A lui non interessa, l’importante è ricostruire l’ormai perduto idillio familiare. Haggis ha il merito di farci vedere tutte (ribadisco tutte, e con dovizia di particolari) le peripezie dell’uomo finalizzate alla fuga della donna. Ed è così che, nonostante il canovaccio sia abbastanza semplice, lo spettatore partecipa empaticamente all’odissea messa in scena. Adrenalinico.

Scream 4
di Wes Craven
con Neve Campbell, Courtney Cox, David Arquette, Emma Roberts, Hayden Panettiere
Horror, 103 min., Usa, 2011
**½

Come recita il sottotitolo… «nuova decade, nuove regole». Là (Scream, 1996) l’assassino contattava le vittime con i primi telefoni cordless. Qui sfrutta invece le tecnologie più recenti, ovvero telefoni cellulari e webcam. La nuova frontiera del delitto è filmarlo e renderlo disponibile in streaming sulla rete. Chi è l’assassino? Con la sorpresa finale (e l’intrinseca parodia del genere a cui appartiene) Craven riesce ancora a stupire.

Da evitare (senza riserve)

Thor
di Kenneth Branagh
con Chris Hemsworth, Natalie Portman, Tom Hiddleston, Colm Feore
Azione, 110 min., Usa 2011
s.v.

Visto in dvd fa esclamare un «meno male che non ho pagato il biglietto per andarlo a vedere al cinema». È praticamente un lungo filmato da videogioco. Anzi no, è peggio. La storia è esilissima, le recitazioni insufficienti, quasi tutto (forse anche gli attori) è stato creato o ritoccato al computer, sceneggiatura e dialoghi sono pessimi. Cosa rimane? Niente. Uno dei peggiori film che abbia mai visto.
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