lunedì 23 dicembre 2013

Nuova recensione Cineland. Blue Jasmine di W. Allen

Blue Jasmine 
di Woody Allen 
con Cate Blanchett, Joy Carlin, Richard Conti, Glen Caspillo 
Drammatico, 98 min., USA, 2013 

Per critica e pubblico Woody Allen è tornato con questo film ai suoi livelli d’eccellenza. Non mi sento di affermare il contrario, ma certamente di ridimensionare certe voci che hanno gridato al capolavoro. C’è chi ha osannato la recitazione della Blanchett, chi ha lodato le capacità di scrittura di Allen, chi ha visto nel film una spietata e costruttiva critica alla società contemporanea e chi, infine, ha riconosciuto nel film qualità che lo farebbero diventare il migliore della stagione. Non esageriamo. 

Non ci troviamo di fronte né all’Allen più in forma né ad un film dalla dirompenza che possa imporlo come una delle migliori pellicole degli ultimi tempi. L’idea di fondo è certamente buona, ma sicuramente troppo inflazionata e appesantita da “colpi di scena” che ci sembrano più concepiti per ingraziarsi il pubblico che per far fare un salto di qualità alla storia. Come se non bastasse numerosi sono i cliché usati ed abusati e perciò poco interessanti: la donna che vuole vivere a tutti i costi al di sopra delle proprie possibilità (economiche e culturali) e che non si rassegna al fatto di aver perduto tutto per colpa di un marito truffatore; il marito truffatore e quindi fedifrago impenitente (conseguenza fin troppo banale); il figlio che dopo aver scoperto i misfatti del padre decide di cambiare radicalmente vita, dopo un inevitabile periodo di sbandamento; la sorella sfigata che ha un compagno sfigato e che quando trova l’uomo che le potrebbe assicurare uno stile di vita migliore tradisce il compagno sfigato ma poi prende una fregatura e si accorge che il vero amore era quello del compagno sfigato e allora torna sui suoi passi. 

Nulla ci spiazza in questo film che restituisce un Allen effettivamente più vivo, ma non abbastanza caustico e profondo. In poche parole, ci sorbiamo una storiella prevedibile, quasi superficiale, all’insegna del già visto e della misoginia. Oscar alla Blanchett quasi assicurato se si pensa che le interpretazioni di pazzi ed esauriti piacciono sempre molto a pubblico e addetti ai lavori. 

Voto: 2 su 5 

(Film visionato il 17 dicembre 2013)

mercoledì 11 dicembre 2013

Nuova recensione Cineland. Philomena di S. Frears

Philomena 
di Stephen Frears 
con Judi Dench, Steve Coogan, Sophie Kennedy Clark, Anna Maxwell Martin 
Drammatico, 98 min., Gran Bretagna, USA, 2014 

Martin Sixsmith (Coogan), ex giornalista silurato dall’establishment di Blaire, vive una crisi professionale che sembra non avere fine. Ma, ad un party, un amico lo fa incontrare con la direttrice di un tabloid e la Vita lo mette in contatto con Philomena, anziana signora che convive con i demoni di un figlio strappatole dalle suore in giovane età e dato in adozione. L’equazione è presto fatta: Martin seguirà Philomena nella ricerca del figlio per scrivere un articolo che potrebbe riabilitarlo professionalmente. 

Steve Coogan e Jeff Pope, gli sceneggiatori, sono partiti da fatti realmente accaduti per dare vita ad una storia avvincente, profonda, coinvolgente. Storia impreziosita da due principali fattori: la regia asciutta e puntuale di Stephen Frears e la magistrale interpretazione di Judi Dench. È soprattutto grazie alla controllata maestria di questi due artisti che il portato della sceneggiatura viene amplificato a tal punto che possiamo dire di trovarci di fronte ad un’opera accessibile e, quel che è più importante, pregna di significati. C’è una riflessione profonda sulla religione: il fatto di credere nonostante le avversità che la vita riserva e l’importanza dell’agire nella fede; il ruolo dei religiosi e quello dei fedeli. C’è anche una grande riflessione sull’imperscrutabilità e la necessaria accettazione di certi momenti bui della Vita, sul rispetto e le differenze sociali nella società di ieri e di oggi. Talvolta si rimane un po’ spiazzati dalla velocità con la quale sono stati sviluppati certi passaggi del film, soprattutto i momenti di raccordo, ma la qualità di scrittura è talmente buona che tutto scorre senza intoppi, per un risultato finale che ormai difficilmente si vede sul grande schermo

Voto: 4 su 5 

(Film visionato il 10 dicembre 2013)

domenica 8 dicembre 2013

Nuova recensione Cineland. Venere in pelliccia di R. Polanski

Venere in pelliccia 
di Roman Polanski 
con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric 
Drammatico, 96 min., Francia, Polonia, 2013 

L’esperienza si vede quando si fa tanto con poco. Come quando con poche pennellate Picasso dava vita alle sue opere. Come quando con pochi dialoghi e scarne descrizioni Carver scriveva uno dei suoi racconti. Come quando Robert Bresson con qualche sguardo ed esili trame partoriva i suoi capolavori. Rispetto a questi artisti, Polanski procede per altre forme di semplificazione e quello che ne esce rimane comunque Cinema, del più bello e coinvolgenteEgli opera per sottrazione: in Carnage erano quattro personaggi in un appartamento; in Venere in pelliccia sono due persone in un teatro. Troppo poco? No, il giusto. 

Anche in quest’ultima opera la base di partenza è una riuscitissima pièce teatrale, non così originale e dirompente come quella del film precedente ma sicuramente raffinata e culturalmente pregna. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non siamo di fronte né ad un film minimalista né ad una semplice trasposizione dell’opera più conosciuta di Sacher-Masoch, bensì a un’intelligente rielaborazione di quest’ultima che mette al centro della riflessione il rapporto tra uomo e donna, nel presente e nel passato. Ottime le interpretazioni di Amalric e Seigner, anche se la seconda non risulta sempre nella parte a causa della sua fisicità sì da Venere ma un po’ attempata e artefatta. 

Versione italiana “rovinata” dal doppiaggio. 

Voto: 4 su 5 

(Film visionato il 31 novembre 2013)  

martedì 3 dicembre 2013

Nuova recensione Cineland. Il passato di A. Farhadi

Il passato 
di Asghar Farhadi 
con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet 
Drammatico, 130 min., Francia, 2013 

Ahmad (Mosaffa) torna dall’Iran a Parigi richiamato dall’ex moglie Marie (Bejo) che vuole formalizzare il divorzio. Marie non ha prenotato una camera d’albergo per l’ex marito, che è dunque costretto a vivere per qualche giorno sotto lo stesso tetto dell’ex moglie e del nuovo compagno, tra figli acquisiti e avuti da precedenti matrimoni. Il soggiorno evidenzierà una situazione tesa, ingarbugliata, dove i rapporti tra i personaggi risultano fondamentali per lo svolgimento della trama. 

Farhadi si conferma un equilibrista della parola. La sua qualità di scrittura, a livello di dialoghi e di costruzione d’intreccio, riesce a riprodurre i meccanismi più complicati della vita in società mettendo i personaggi sempre di fronte ad un futuro che non conoscono e non conosciamo ma che siamo certi riserverà sorprese. Era ciò che accadeva in Una separazione, dove la narrazione di una vicenda famigliare dava vita a sviluppi inaspettati come nella migliore tradizione dei thriller psicologici, ed è ciò che accade nel Passato. Ma in quest’ultima prova manca parte di quello che avevamo visto nel capitolo precedente. Là c’era quella sensazione di “sazietà” che solo i film completi sanno dare. Si partiva dalle vicissitudini di un marito e di una moglie per arrivare a quelle di una famiglia e approfondire i ruoli dei genitori, dei figli, dei secondi in relazione ai primi e viceversa. In più c’era la storia tangente di un’altra famiglia, scaturigine del grande colpo di scena. Il tutto in un contesto social-politico-religioso particolare: quello iraniano. 

Con il Passato cambia l’ambientazione ma non il punto di partenza e l’idea di fondo. Siamo sempre nella contemporaneità, ma a Parigi. Anche qui si comincia dal rapporto tra due ex coniugi per poi allargare il cono visuale ai parenti che gravitano loro intorno.  Qui però ci accorgiamo troppo presto che anche in questo caso ci sarà un colpo di scena e già sappiamo quali saranno le reazioni dei personaggi, non così definiti come nell’opera precedente. Certo, i torti tra questi ultimi sono egregiamente distribuiti  e ogni dialogo è assolutamente coerente con il titolo. Ma ci si mette un finale fin troppo retorico a convincerci che il nostro ultimo giudizio deve essere un po’ ridimensionato. 

Voto: 3 ½ su 5 

(Film visionato il 23 novembre 2013)

lunedì 18 novembre 2013

Nuova recensione Cineland. The Canyons di P.Schrader

The Canyons 
di Paul Schrader 
con Lindsay Lohan, James Deen, Nolan Gerard Funk, Tenille Houston 
Thriller, 99 min., USA, 2013 

Prima di cominciare con l’analisi del film è bene ricordare una cosa: il film è stato realizzato con soli 250mila dollari. Non 25milioni (costo di un film hollywoodiano di fascia medio-bassa). Solo una combinazione di talento e spregiudicatezza può sopperire a una tale mancanza di risorse. 

Diretto da Paul Schrader e sceneggiato da Bret Easton Ellis (i nomi dicono tutto, chi non li conosce si informi), il film è un ritratto cinico e spietato della società contemporanea. Per essere più precisi, The Canyons è un documento socio-antropoligico dalle connotazioni catartiche (secondo l’accezione aristotelica applicata alla tragedia greca). La narrazione è acida e iperrealistica, i personaggi incarnano il “lato oscuro” della società che tendiamo ad escludere dal nostro cono ottico benché sia ben vivo e presente, forse più della sua controparte sana. I luoghi (le immagini dei cinema abbandonati, gli interni freddi, i campi lunghissimi con le ville solitarie delle colline di Hollywood) accentuano il senso di isolamento di una vita che è sempre più connessa virtualmente a quella degli altri ma mai così distante. Non è un caso che i personaggi le cui vicissitudini innervano la pellicola ci vengono presentati attorno ad un tavolo in un locale dove vengono serviti cocktail tutti uguali mentre comunicano tra loro a monosillabi perché incollati ai propri smartphone touchscreen. Una vera a propria dipendenza dalle nuove tecnologie che per la prima volta si fa costante all’interno di una narrazione cinematografica andando quasi a scalzare altre “debolezze” come alcol, droga e pornografia. Elementi comunque presenti in una storia di ricatti (economici e sessuali), giochi di potere, omicidi e bugie che finisce per mettere a nudo le contraddizioni proprie della nostra società, ma in modo inconsueto. Nel senso che qui non ci sono buonismi né filtri, per un risultato che ci fa percepire la totale indipendenza del processo creativo da qualsiasi regola della macchina produttiva hollywoodiana. Ciò non vuol dire che il percorso non abbia presentato ostacoli. Sono risapute le difficoltà con le quali Schrader e Ellis hanno dovuto fare i conti, non ultimo il budget ridottissimo che li ha obbligati ad affidare le parti principali a due outsider. Ma, in fin dei conti, il valore aggiunto dell’opera, nonché lungimirante operazione pubblicitaria, è proprio rappresentato dal fatto che James Deen e Lindsay Lohan si rivelano inaspettatamente perfetti, sempre nella parte. Il primo con la sua faccia da bravo ragazzo, che accentua l’atrocità dei ricatti e degli abusi che il suo personaggio perpetra. La seconda con la sua fisicità che svela definitivamente, sul doppio piano della realtà e della finzione cinematografica, come divismo e popolarità (amplificati a dismisura da internet e social network) abbiano definitivamente sostituito qualsiasi oggettivo valore culturale, etico ed estetico. 

Voto: 4 su 5 

(Film visionato il 16 novembre 2013)

lunedì 11 novembre 2013

Remember Us. Sorcerer, Vacancy, Chloe


Sorcerer – Il salario della paura
di William Friedkin
con Francisco Rabal, Roy Scheider, Bruno Cremer, Amidou
Drammatico, 122 min., USA, 1977
*** 1/2

Quattro uomini devono fuggire, per motivi diversi, dalle loro esistenze. Si ritrovano in uno sperduto villaggio sudamericano dove accettano, allettati da un ricco compenso che potrà risollevare le loro sorti, di intraprendere un pericoloso viaggio attraverso la giungla. L’obiettivo è guidare due camion carichi di nitroglicerina instabile verso un pozzo petrolifero che deve essere fatto esplodere a 200 miglia di distanza. Dovranno affrontare piogge torrenziali, ponti sospesi, strade dissestate, nonché i loro stessi compagni di avventura, in un crescendo di tensione e adrenalina.
Riproposto in versione restaurata al Festival di Venezia in occasione del Leone d’Oro alla Carriera a Friedkin, questo film del 1977 vuole raccontare il “mistero del Fato", capace di guidare le azioni dei protagonisti, così diversi tra loro per provenienza geografica e classe sociale. Considerato dal regista la sua migliore opera, Sorcerer fu tuttavia accolto con una certa freddezza e solo recentemente è diventato un vero e proprio cult, rivalutato dalla critica e apprezzato oggi da una nutrita schiera di estimatori.


Vacancy
di Nimrod Antal
con Kate Beckinsale, Luke Wilson, Frank Whaley, Ethan Embry, Scott G. Anderson, Mark Casella
Thriller, 95 min., USA, 2007
***

La premessa è quella classica da film horror: una coppia ha un guasto all’automobile proprio davanti a un motel sperduto così che, complice anche l’ora tarda, decide di prendere una stanza per la notte e chiamare i soccorsi il mattino dopo. Peccato che il tranquillo motel si trasformi ben presto in una trappola mortale da cui bisogna fuggire a tutti i costi. Dopo i primi 15 minuti di preparazione la tensione comincia dunque a crescere con un ritmo inarrestabile che qualifica di fatto la pellicola di Nimrod Antal come un thriller claustrofobico, anche a causa dell’assenza di risvolti splatter o tipicamente horror, con una narrazione concentrata più sull’aspetto psicologico e su elementi originali capaci di innovare il genere, come la cura dei dettagli e della costruzione scenica o la caratterizzazione dei due protagonisti, interpretati non dai soliti due adolescenti eccitati ma da una coppia di coniugi in crisi costituita da Kate Beckinsale e Luke Wilson, qui in una inedita veste drammatica.


Chloe – Tra seduzione e inganno
di Atom Egoyan
con Julianne Moore, Liam Neeson, Amanda Seyfried
Drammatico, 96 min., USA/ Canada / Francia, 2009
**

Una donna matura è a tal punto gelosa del marito ancora bello e affascinante da assoldare una prostituta incontrata casualmente affinché lo seduca e ne testi la fedeltà. Ma il piano finisce per ritorcersi contro la moglie con esiti inaspettati. La cura delle immagini e la qualità degli interpreti (Julianne Moore, Liam Neeson e Amanda Seyfried) controbilanciano una storia poco coerente ed eccessivamente patinata che cerca di coprire le proprie incongruenze con il ricorso all'erotismo, centrando solo in parte l'obiettivo di rendere il film gradevole.

sabato 2 novembre 2013

Nuova recensione Cineland. La vita di Adele di A. Kechiche

La vita di Adele 
di Abdel Kechiche 
con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Jeremie Laheurte, Catherine Salée 
Drammatico, 179 min., Francia, 2013 

La protagonista è lei, Adele (Adèle Exarchopoulos). La telecamera è fissa sul suo volto. Già dalle prime inquadrature l’attenzione si concentra sulla bocca, sulle labbra aperte e carnose, i denti perfetti e imperfetti allo stesso tempo (bianchi candidi ma con gli incisivi un po’ pronunciati), gli zigomi rotondi e lisci, gli occhi nocciola. Kechiche si sofferma poi sul suo corpo liscio, sodo, giovane. La narrazione diventa quindi un tutt’uno con il personaggio. Importa solo cosa Adele fa, dove va, cosa prova. Lesbica? Bisessuale? Una ragazza insicura e disorientata? Chi è la protagonista? Non lo sappiamo. Ma non è una resa. È proprio l’incessante ricerca della sua essenza che continua a scavarci dentro

Certo, il prezzo che dobbiamo pagare è alto. Dobbiamo sopportare una trama scontata, qualche imprecisione narrativa di troppo, scene di sesso spinte sin quasi al ridicolo, scelte registiche discutibili: situazioni e personaggi inverosimili (soprattutto nel finale), il pube depilato che rende Adele ancora più “bambina”, il continuo indugiare del regista sulla bocca schiusa, le gambe aperte ed il sedere mentre dorme a pancia in giù. Kechiche sa come sfruttare a vantaggio suo e della sua opera i meccanismi del “morboso”: il voyeurismo delle scene di sesso, il processo d’identificazione con il personaggio e il suo grande portato di ambiguità (siamo veramente sicuri che si tratti di una storia lesbica?). È grazie a questo che il regista salva il film. Perché Adele tocca vette di bellezza che solo le donne dei dipinti di Francois Boucher erano riuscite ad incarnare

Voto: 4 su 5 

(Film visionato il 30 ottobre 2013)

giovedì 31 ottobre 2013

I migliori film horror degli ultimi dieci anni. Secondo voi e secondo noi



Buon Halloween a tutti!!!

Questa è la notte delle streghe. Qualcuno si imbucherà ad una festa con ragnatele finte e zucche intagliate solo per uscirne sbronzo e non ricordarsi nulla domattina. Qualcun altro si sta già preparando psicologicamente al tour dei cimiteri. Ma per tutti questa è la notte perfetta per godere la visione di un bel film horror. 

Ma qual è quello giusto, in un periodo in cui i remake girati male la fanno da padrone e il rischio di incappare in una tavanata galattica è dietro l'angolo?
Abbiamo chiesto a voi, fidati lettori. Di seguito riportiamo le vostre preferenze.

Si aggiudica il premio del pubblico Le colline hanno gli occhi (Alexander Aja, 2006), remake dell'omonimo film di Wes Craven (anch'esso da recuperare) del 1977.

Menzione speciale, invece, per 28 settimane dopo, Scream 4, Saw - L'enigmista, Rec, Paranormal Activity, Lasciami entrare e Final Destination 3D.   

Di seguito riportiamo invece il nostro countdown. Dalla decima alla prima posizione, in un crescendo che decreterà il miglior film horror degli ultimi dieci anni (secondo noi).



10 – Bed Time (2011)

Motivazione: In una recensione avevo già fatto notare che lo stesso anno era uscito The Resident (Antti Jokinen, 2011) con Hilary Swank, film che mette in scena praticamente le stesse cose. Ma qui la storia è più malata, e il finale è a dir poco terrorizzante.

 

 
9 – The Final Destination 3D (2009)
Motivazione: Da vedere solo ed esclusivamente nella sua versione in tre dimensioni. Mi ricordo ancora il sudore freddo e i salti sulla poltrona del multisala.


 


8 – Lasciami entrare (2008)
Motivazione: Entra nella Top Ten perché è un film d’autore, dove la ricercatezza delle inquadrature e la particolarità della storia lo rendono un unicum difficilmente eguagliabile.


 


7 – La città verrà distrutta all’alba (2010)
Motivazione: Remake riuscito. La tensione c’è e si avverte, la trama è sempre interessante e quello che ne esce è un horror gradevole e alla portata di tutti. Di quelli da vedere e rivedere.


 
 

6 – 30 giorni di buio (2007)
Motivazione: Pensavate che i vampiri fossero passati di moda? Questo film li recupera al meglio e, grazie anche all’ambientazione (la neve, il buio), ne esce un’interessante prova tutta da gustare.





5 – Le colline hanno gli occhi (2006)
Motivazione: Altro ottimo remake dove i ritmi e le trovate del cinema contemporaneo attualizzano la storia originale, impreziosendola.



 

 
4 – Orphan (2009)
Motivazione: Se vuoi spaventare il pubblico metti in pericolo donne e bambini. Qui invece è una bambina a seminare il terrore in una famiglia perfetta (?), ma nessuno sospetta di lei. Pensate ancora di volerli adottare?



 
E ora... il Terrore, il Terrore!!!


3 – Saw – L’enigmista (2004)
Motivazione: Ci riferiamo al primo capitolo come emblema di una serie di successo. Un "viaggio" nell'orrore che, con Final Destination, si è imposto nell’immaginario collettivo grazie alle sue macchine infernali, la suspense che sono riuscite a creare e una trama fitta di colpi di scena.


 
2 – Wolf Creek (2005)
Motivazione: Secondo gradino del podio perché è un horror cattivo sotto tutti i punti di vista: fisico e psicologico. La tensione sale fino a raggiungere vette difficilmente sostenibili, senza mai scadere nel gore e senza mai tradire la scritta che ad inizio film ci avverte che i fatti sono realmente accaduti.

 

And the Winner is...
 

1 – Rec (2007)
Motivazione: A nostro parere si aggiudica il primo posto perché è riuscito a far paura nel modo che più ci piace: rielaborare la tradizione senza titubanze per dare vita a qualcosa di innovativo.

domenica 27 ottobre 2013

I peggiori film horror degli ultimi 10 anni

In attesa di scoprire i migliori film horror degli ultimi 10 anni, vi proponiamo quelli che di certo si aggiudicano il titolo di peggiori.





10. Paranormal activity
Motivazione: E c'è ancora gente che si spaventa per le porte che cigolano e le presenze soprannaturali? Poltergeist faceva poca paura nel 1982, figuriamoci un film del genere nel 2007.










9. Quella casa nel bosco
Motivazione: Un'accozzaglia di citazioni per un risultato che non centra minimamente l'obiettivo del genere horror: fare paura.









8. The Grudge
Motivazione: Praticamente un dramma da camera. Certi film di Bergman sono più inquietanti. Passiamo più di un'ora ad aspettare qualcosa, come uno spavento, e invece... ci dobbiamo accontentare di una massa di capelli neri che spuntano dal nulla. Vabbé.










7. Silent hill
Motivazione: Un po' videogioco, un po' horror... un po' inutile e sicuramente poco avvincente. In poche parole non ce ne frega nulla all'inizio come alla fine. Insipidissimo.











6. Turistas
Motivazione: Troppo convenzionale, con l'aggravante che l'ambientazione brasiliana non aiuta per niente "l'orrore" e si guarda il nulla quasi fino alla fine del film.











5. Martyrs
Motivazione: Qui si entra nel campo dello splatter, del gore (chiamatelo come volete), più becero che ci sia. Non c'è un fine, c'è solo sterile disgusto.











4. Hatchet
Motivazione: Vi chiederete perchè questo film non sia sul podio delle schifezze horror degli ultimi dieci anni. Perchè è sì un cesso di film, ma almeno sa di esserlo. In ogni inquadratura, in ogni fotogramma. 






E ora il podio con il peggio del peggio dell'Horror contemporaneo...



3. Rec 3
Motivazione: Come infangare il nome di una serie di successo. Ridicolo.



2. 30 giorni di buio 2
Motivazione: Il primo capitolo ci aveva conquistato. Questo ci ha fatto proprio ca***e. Scritto male, recitato male, coreografato peggio. Non rientrerebbe neanche nella classifica del meglio del trash, che racchiude comunque film con una loro dignità.



1. L'esorcista La Genesi
Motivazione: Sicuramente il film horror più brutto degli ultimi dieci anni (e forse di sempre). Più efficace di un sonnifero, più rassicurante di un cartone di Peppa Pig. Un vero cul(t).

martedì 22 ottobre 2013

SONDAGGIO DI HALLOWEEN: Qual è il migliore film horror degli ultimi 10 anni?


In occasione dell'avvicinarsi di Halloween, abbiamo inaugurato sulla parte destra del blog un sondaggio per stabilire quali siano i film horror più amati degli ultimi anni, dandovi così anche qualche spunto per allietare la notte più paurosa dell'anno.
Il sondaggio verrà chiuso alle ore 10 di mercoledì 30 ottobre, quando pubblicheremo i risultati.
Il giorno dopo seguirà la nostra speciale classifica.

Cosa aspettate a votare?

sabato 19 ottobre 2013

Le Correzioni di Jonathan Franzen. Recensione

Mirabile affresco del Midwest americano, il romanzo di Franzen ritrae i fallimenti dello sforzo educativo teso a correggere le deviazioni dalla “regola” rigida e tradizionalista del Dopoguerra.
Emblema di questa inadeguatezza sono gli anziani coniugi Lambert, Enid e Alfred, alle prese con la malattia di quest’ultimo e con le delusioni di un’esistenza agli sgoccioli, incapaci di approvare le scelte dei loro tre figli ormai adulti, trasferitisi sulla costa per sfuggire alle pressioni di una famiglia troppo ingombrante.
Ognuno di loro, nonostante un lavoro prestigioso e una vita esteriormente gratificante, è irrimediabilmente condannato all’infelicità: Gary, dirigente di banca, vittima di una depressione strisciante e di una moglie immatura; Chip, che perde il posto di professore universitario per avere avuto rapporti sessuali con una studentessa; Desirèe, chef di successo, che dopo il divorzio dal suo capo intreccia una discutibile relazione con un uomo sposato e poi con la moglie di questo.

Di fatto, ognuno dei protagonisti avrebbe tutte le carte in regola per aspirare ad un briciolo di felicità o, perlomeno, di appagamento, ma le loro esistenze sono talmente confuse e ricche di orpelli, talmente basate sull'apparenza e l’esteriorità, che non possono fare altro che andare avanti per inerzia.
I personaggi di Franzen, insomma, sono i perfetti prototipi della degenerazione della cultura occidentale: uomini e donne della media borghesia, senza particolari problemi ma depressi e insoddisfatti, che trovano negli psicofarmaci e nelle droghe un caldo rifugio e sono circondati da persone che non fanno altro che mettere in luce le loro mancanze e debolezze.
L'autore americano è davvero abile nel tratteggiare i propri caratteri, umanizzandoli e ritraendoli ognuno con qualità peculiari e individuali.

Il personaggio a mio avviso più interessante è senza dubbio Chip, intellettuale di 39 anni ossessionato dal sesso, animato da velleità sovversive e anticonformiste, ormai troppo vecchio e patetico per gli abiti di pelle che indossa.
Nonostante le nobili intenzioni, è una caricatura di se stesso, ancora dedito alla vana ricerca di approvazione da parte dei genitori, segretamente giudicati responsabili per l’uomo che è diventato.
Il suo vero problema, infatti, è la mancanza di autostima, acuita non solo dai rapporti famigliari, ma anche dall’indifferenza dei propri studenti ai temi di critica sociale che egli potentemente veicola durante le sue lezioni universitarie e che rimangono sostanzialmente inascoltati: «Tutti quei critici che si danno tanta pena per lo stato della critica. Nessuno che sappia dire di preciso che cosa non va. […] E chi crede di essere libero non è “davvero” libero. E chi crede di essere felice non è “davvero” felice».
Quasi come una forma di protesta contro il declino della società occidentale, Chip si fa sedurre dalla giovane e avvenente Melissa, la studentessa che meno si mostrava interessata alle sue lezioni, testimoniando suo malgrado che il sesso è sicuramente uno dei due motori della società americana, ovvio compendio al secondo motore, costituito dai soldi.
Contro questa certezza si era dovuto scontrare a sue spese lo stesso Chip, il quale «sino a poco tempo prima […] credeva che in America si potesse avere successo senza guadagnare un sacco di soldi».

Puntuale contraltare alle velleitarie aspirazioni del figlio, è la madre Enid, il cui mondo è a tal punto un «miracolo di perbenismo» che è in grado di emozionarsi per un’enorme piramide di gamberetti veduta al matrimonio dei ricchi vicini di casa e addirittura si sente offesa quando, durante una crociera autunnale a lungo sognata, il marito Alfred spezza l’atmosfera di eleganza cadendo involontariamente in mare.
In sostanza Enid non riesce a comprendere i bisogni emotivi degli altri, forgiando nella sua mente i figli e il marito ad immagine e somiglianza di quanto ella si è prefissata a tavolino: «i suoi figli non erano intonati all’ambiente. Non volevano le stesse cose che volevano lei e tutti i suoi amici e tutti i loro figli».

Franzen riesce a trasmetterci con grande efficacia e in modo assolutamente credibile i pensieri e le emozioni dei personaggi, strutturando una tecnica narrativa che tornerà anche nel successivo Libertà, caratterizzata dal ricorso a continui flashback funzionali ad ambientare solo una parte del racconto nel tempo presente, quando l’azione descritta si è ormai già svolta.
Ne deriva un potente senso di irrimediabilità che avvolge l’intero romanzo e che in forma maggiore di quanto accadrà in Libertà, qui si colora di tinte più tragiche e claustrofobiche, nella visione di un passato ormai irrecuperabile.

Jonathan Franzen, Le Correzioni, Torino, Einaudi, 2005.

lunedì 14 ottobre 2013

Nuova recensione Cineland. Anni felici di D. Luchetti

Anni felici 
di Daniele Luchetti 
con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo 
Drammatico, 100 min., Italia, 2013 

Guido e Serena hanno due figli e vivono nella Roma degli anni Settanta. Lui è un aspirante artista che cerca di emergere più coi modi da maudit che attraverso le proprie capacità, lei una casalinga che crede ciecamente nel marito e si annulla pur di non perderlo. La relaziona comincia ad avere degli alti e bassi sempre più frequenti quando lui non riesce a sfondare e lei realizza di non avere una propria personalità. La situazione precipita quando Serena si allontana dal marito fedifrago e ormai fallito, con figli al seguito, per un soggiorno in un campo femminista dove ha una relazione con la gallerista del compagno. Al suo ritorno la coppia si sfalda e Guido vive una fase di depressione che riuscirà ad incanalare in una spinta creativa che lo riscatterà agli occhi dei critici. Qui il film poteva finire e invece, attraverso le reazioni dei figli, Luchetti rimarca il fatto che erano “anni felici ma che nessuno se ne era accorto”. 

La voce fuori campo di Dario, il figlio maggiore ormai adulto, introduce gli eventi e ci spinge ad immedesimarci in lui, a pensare che quello che stiamo per vedere è il ricordo della sua infanzia. Effettivamente l’intento dichiarato del regista era quello di dare vita ad un opera sì romanzata ma dall’impianto autobiografico. E invece ciò che ne esce non è la ricostruzione di una situazione famigliare dalla prospettiva di un bambino, quanto una sorta di Scene da un matrimonio “all’italiana” che si concentra ora sulle reazioni della moglie, ora su quelle del marito, ora su quelle dei figli. Questa continua indecisione prospettica (che svuota di pathos la scena più importante del film), unitamente alla poca distanza del regista dagli eventi narrati, alla mancanza di soluzioni registiche degne di nota e all’assenza di una storia sulla famiglia veramente capace di appassionare e di dire qualcosa di più rispetto a quello che già è stato detto (non basta l’escamotage di una storia lesbica per attualizzare e rendere accattivante la narrazione) sono elementi che non permettono al film di decollare, nonostante l’eccellente recitazione di Rossi Stuart e della Ramazzotti e l’ottima ricostruzione dei costumi e degli interni (tuttavia si nota la tendenza a chiudere le inquadrature, soprattutto negli esterni, per evitare di riprendere elementi architettonici contemporanei). Un film dunque poco a fuoco, come le opere del padre Guido: troppo accademiche per “rapire” l’attenzione degli spettatori, troppo convenzionali per risultare memorabili. 

Voto: 2 su 5 

(Film visionato l’11 ottobre 2013)

venerdì 11 ottobre 2013

La Passeggiata di Robert Walser. Recensione


Inno alla leggerezza e alla bellezza della vita, questo breve racconto incarna perfettamente la poetica di Robert Walser, racchiusa nella contemplazione delle piccole cose che, passo dopo passo, si affacciano sulla strada dell’esistenza umana.
Tutto diventa possibile per chi intraprende un viaggio senza progettare un itinerario né fissare una meta alle proprie peregrinazioni: la natura si anima sotto il suo sguardo incantato, la quotidianità scivola lentamente sul piano della fantasia, ogni oggetto perde il suo alone di prosaico grigiore per trasformarsi in un miracolo inaspettato, tanto sorprendente da fare dubitare persino della sua stessa esistenza.

Ad ogni passo un nuovo mondo si dischiude sotto il piede del poeta camminatore che, come un bambino, è capace di imbattersi in spaventosi giganti, incontrare professori, conversare amabilmente con cantanti e attrici famose, ingaggiarsi in cortesi ma taglienti tenzoni con sarti perfidi e ironici.

E se il lettore potrebbe non credere a ciò che gli viene raccontato, in un universo dominato dalle leggi dell’individualità, dove le percezioni appaiono più concrete della realtà esterna, i sensi diventano l’unica guida e il solo punto di riferimento:  «la terra si faceva sogno, io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa. Ogni forma esteriore si dissolse, il finora compreso divenne incomprensibile».

Colui che passeggia è colto da ogni sorta di pensieri e di idee così che, ben presto, tra l’incanto e lo stupore, comincia a farsi strada una sensazione di malinconia e sottile inquietudine, che lo conduce al dubbio che le meraviglie godute sino a quel momento non siano altro che fiori da deporre sulla sua tomba al termine del cammino e, fuor di metafora, della vita stessa.
È su questo pensiero e, insieme, sulla consapevolezza dell’insolubile intreccio tra felicità ed infelicità dell’uomo, che calano le tenebre e si chiude il racconto.

La Passeggiata diventa così emblema della scrittura nomade ed erratica di Walser, solerte passeggiatore, dell’approccio alla vita velato di nostalgico romanticismo tipico di uno scrittore che ha condotto un’esistenza difficile e tormentata, punteggiata di difficoltà economiche e crisi allucinatorie e che solo dopo la morte è stato ammesso tra i massimi autori di lingua tedesca del Novecento e posto sullo stesso piano di autori come Kafka, Musil e Rilke.

Robert Walser, La Passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Milano, Adelphi, 1976.

vedi anche: Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, Milano, Adelphi, 1981.

venerdì 4 ottobre 2013

Nuova recensione Cineland. Sacro GRA di G. Rosi

Sacro GRA 
di Gianfranco Rosi 
Documentario, 93 min., Italia, 2013 

Il Grande Raccordo Anulare, ovvero la grande autostrada urbana che abbraccia Roma, e chi attorno ad esso vive ed opera sono i protagonisti di questa pellicola. C’è un nobile decaduto che vive in un monolocale con la figlia, un paramedico con una madre affetta da Alzheimer, un nobile che affitta la propria dimora a chi realizza fotoromanzi, un botanico che combatte per la sopravvivenza delle palme, un pescatore d’anguille, ragazze immagine che lavorano in un bar, transessuali, prostitute e clienti. 

Film o documentario? Realtà o finzione? Svaniscono i confini di genere in quest’opera che è stata presentata al pubblico come documentario. Ma lo è? Ammettendo che i personaggi siano reali, scovati dal regista in due anni di peregrinazioni attorno al Sacro GRA, sorge comunque un dubbio legato al modo in cui l’autore ha deciso di filmare le situazioni. Le inquadrature sono studiate nei minimi particolari, come pure la disposizione dei personaggi in scena e, talvolta, i loro dialoghi (si pensi alle riflessioni a voce alta del pescatore su un articolo di giornale incentrato, guarda caso, sulle anguille che cattura ogni giorno o alla scena strappalacrime del congedo del paramedico dalla madre malata). Sotto il punto di vista narrativo il regista decide di operare almeno tre “giri di valzer”: uno per la presentazione del GRA e di chi lo “abita”, uno per aiutarci a distinguere tra comparse e protagonisti, l’ultimo per rendere questi ultimi (i più interessanti?) indimenticabili. L’operazione ha una forza dirompente limitatamente al primo “giro”. Poi, nonostante ottime scene impreziosite da memorabili battute di qualche personaggio, diventa ridondante e si comincia ad avvertire la mancanza di una storia che eviti il calo di attenzione del già visto e del già sentito. 

È dunque necessaria una riflessione sulla decisione della giuria capitanata da Bernardo Bertolucci di premiare l’opera con il Leone d’Oro dell’ultimo Festival di Venezia. Questo perché è altamente improbabile che nella competizione non ci fosse un film di pura fiction avvincente e ben realizzato che si potesse aggiudicare il riconoscimento. Probabilmente è stata premiata la novità di un’opera che ibrida i generi, che (s)corre sul confine tra realtà e finzione valicandolo più e più volte, che ridimensiona con il suo valore artistico i video caricati in rete che si elevano a vera testimonianza della realtà. Con quest’opera Rosi ha certamente cercato di rendere epica la presenza di una periferia che esiste, che è al centro del mondo ma spesso fuori dal nostro cono ottico. Novità tecnica e contenutistica, dunque. Forse è per questo nuovo linguaggio che l’autore ha conquistato il gradino più alto del podio

Voto: 3 ½ su 5 

(Film visionato il 2 ottobre 2013)

lunedì 30 settembre 2013

Nuova recensione Cineland. Bling Ring di Sofia Coppola

Bling Ring 
di Sofia Coppola 
con Katie Chang, Israel Broussard, Emma Watson, Taissa Farmiga 
Drammatico, 87 min., USA 2013 


Los Angeles. Un gruppo di ragazzi ruba abbigliamento e gioielli dalle case dei Vip per un valore di tre milioni di dollari. Vengono condannati e incarcerati. 

Il film si presenta come una “Sofia Coppola’s version” dei fatti ricostruiti da un articolo di Nancy Jo Sales pubblicato su Vanity Fair con il titolo evocativo The Suspects Wore Loboutins (I sospetti indossavano Loboutins). Un mockumentary? No. E forse è questo il problema. Perché abbiamo sulla scena una mezza dozzina di ragazzetti (ottima ancora una volta, dopo Noi siamo infinito, Emma Watson) che non conosceremo mai fino in fondo (e questo, in un film di fiction, è peccato mortale). Sapremo solo che hanno tutto e che, nonostante questo, vogliono sentirsi almeno una volta come i Vip che idolatrano. Colpa delle famiglie poco presenti? Sì. Colpa della loro condizione sociale di privilegiati viziati e annoiati? Anche. Colpa dei media che esaltano la vita “al massimo” di Vip indecenti e impenitenti? La Coppola sembra dirci anche questo e, durante la visione, emerge un intento moralistico che sinceramente speravamo di non trovare

Quel che è peggio è che, benché il film si riveli tecnicamente ineccepibile, si nota da subito che manca il ritmo, le accelerazioni, l’appeal e l’empatia per i personaggi che avevamo trovato in romanzi e pellicole ben più datate. Per questo il film ci sembra sorpassato (ben lontano dagli esiti di Spring Breakers), una sorta di lontano parente di Less Than Zero con in più Facebook ma senza quell’atmosfera “maledetta” che pervadeva il romanzo ellisiano e che anche la scarsa trasposizione di Marek Kanievska (conosciuto in Italia con il titolo di Al di là di tutti i limiti) era riuscita ad abbozzare. 

La sensazione è che il minimalismo della Coppola sia molto più adatto a sviluppare trame dai connotati esistenzialisti (v. Lost in Translation e Somewhere), meno a cimentarsi nelle rivistazioni di fatti realmente accaduti (v. Marie Antoniette). 

Voto: 2 su 5 

(Film visionato il 28 settembre 2013)

mercoledì 25 settembre 2013

Nuova recensione Cineland. The Grandmaster di W. Kar-wai

The Grandmaster 
di Wong Kar-wai 
con Tony Leung, Zhang Ziyi, Cung Le 
Biografico, 123 min., Cina, Hong Kong, 2013 

La cifra stilistica di Wong Kar-wai è inconfondibile. Immagini leggermente rallentate costruiscono epiche scene di raccordo, una storia d’amore che non si risolve innerva la narrazione nobilitandola, la costruzione dell’inquadratura rasenta la perfezione. Grazie all'abilità del regista seguiamo qui la storia di Ip Man (interpretato da un bravissimo Tony Leung), primo maestro dell’arte marziale Wing Chun. Per intenderci, tra i suoi allievi figurava il giovanissimo Bruce Lee. Il film non segue però la formazione del suo più celebre allievo, quanto la vita travagliata del maestro, che fu al centro di una disputa per succedere al maestro Gong Baosen e protagonista di alterne fortune durante la guerra cino-giapponese che sconvolse il paese ad inizio Novecento. 

I giochi di luce, il turbinio controllato dei sentimenti (l’amore, la morte, la sconfitta) e l’aver scelto come coreografo dei combattimenti Yuen Wo Ping (che ricordiamo per Matrix e Kill Bill) determinano uno sviluppo della narrazione che è come una sinfonia. Similitudine avvalorata dal lirismo che il regista conferisce al cuore della propria opera ancora una volta grazie ad un brano indimenticabile. In In the Mood for Love era Yumeji's Theme, qui è lo Stabat Mater di Stefano Lentini. La musica rimane così nella nostra mente sottolineando i movimenti perfetti dei combattimenti che sembrano quasi balletti con il loro occupare gli spazi in maniera perfetta e il loro sfruttare fino in fondo gli elementi: l’acqua che cade dal cielo, la neve che copre la terra, il legno che riempie gli edifici. Wong Kar-wai ci insegna che l’individuo è al centro dello spazio e che nelle arti marziali si fonde col tutto, perché tutto sente (è l’avvertire lo spostamento d’aria di un pugno sull’abito che ti permette di parare il colpo). Così è anche l’amore. 

Voto: 3 ½ su 5 

(Film visionato il 21 settembre 2013)

sabato 21 settembre 2013

Nuova recensione Cineland. Rush di Ron Howard

Rush 
di Ron Howard 
con Chris Hemsworth, Daniel Bruhl, Olivia Wilde, Pierfrancesco Favino 
Drammatico/Biografico, 123 min., USA, GB, Germania, 2013 

Il film concentra l’attenzione sulla rivalità tra l’austriaco Niki Lauda e l’inglese James Hunt, due piloti automobilistici agli antipodi. Il primo, soprannominato “computer” per la sua capacità di sentire ogni centimetro quadrato della monoposto, era razionale e determinato. Il secondo, playboy dedito all’alcol e alle droghe, molto più impulsivo ed emotivo. Furono i protagonisti di uno dei più avvincenti campionati mondiali di Formula 1 che si siano mai visti. La stagione 1976, che si era aperta con un netto predominio dell’austriaco, aveva infatti visto lo stesso essere protagonista di un incidente al Nurburgring che lo ridusse in fin di vita e che permise ad Hunt di recuperare terreno in classifica. Lauda si rimise in gioco a soli 42 giorni dall’incidente centrando un incredibile quarto posto. La stagione si decise all’ultimo Gran Premio, con colpo di scena

Ron Howard porta sullo schermo una sceneggiatura di Peter Morgan (The Queen, Hereafter) che si concentra sull’amicizia umana e rivalità sportiva di due anime “dannate” e diametralmente opposte della storia della Formula 1. Ne esce un film che è puro intrattenimento, dove più di una battuta e inquadratura rimarcano la differenza tra il modo di vivere il mondo delle corse (che diventa metafora della visione della vita) di Lauda e quella del rivale di sempre nonché “amico ritrovato” Hunt. Ci si perde poco nei dettagli, preferendo ricostruire le battaglie in pista con gli effetti speciali e circondando i due protagonisti di personaggi un po’ troppo stereotipati. Ciò che preme a Howard e Morgan è mettere al centro dell’attenzione il rapporto tra i due protagonisti per la ricostruzione di un pathos che nel film, in ultima analisi, è ben presente e che la F1 contemporanea farebbe bene a ritrovare

Voto: 3 su 5 

(Film visionato il 16 settembre 2013 all’Electric Cinema di Portobello Road. Se siete amanti del cinema e vi capita di passare da Londra…)
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