venerdì 16 agosto 2013

Trilogia di New York di Paul Auster. Recensione



Tre storie misteriose, tre casi da risolvere animano i racconti di Paul Auster che costituiscono la Trilogia di New York, ambientata in una metropoli allucinata e surreale, in cui i contorni delle cose si sfumano sino a confondersi completamente. In questa città caotica e disordinata non c’è più spazio per l’individualità: tutto è omologato e uguale a se stesso, rispondente a leggi esterne che sfuggono alla comprensione umana e si ripetono all’infinito.  
È quanto accade ai protagonisti di Auster, tre giovani uomini privi di identità che, per lavoro o per caso, diventano detective, trovandosi invischiati in situazioni complesse ed oscure, finendo per diventare loro stessi oggetto della loro estenuante ricerca.

Il primo è Daniel Quinn, protagonista di Città di Vetro, primo racconto della serie, uno scrittore di gialli che viene svegliato nel cuore della notte da una telefonata inaspettata. All’altro capo del filo una voce femminile, che chiede insistentemente di parlare con un certo Paul Auster, sconosciuto investigatore privato (e qui la fiction comincia ad intrecciarsi con il piano del reale). La scena si ripete per varie notti, fino a quando Quinn, ormai rapito dalla curiosità, dichiara di essere lui stesso Paul Auster. Sotto queste mentite spoglie si reca all’appuntamento con la donna, venendo pian piano travolto da una fitta trama di rapporti famigliari, paure ossessive, crimini e follie.

Il protagonista della seconda storia, intitolata Fantasmi, è invece un detective di professione chiamato Blue, assoldato dal suo capo White per pedinare giorno e notte un uomo di nome Black, il quale passa le giornate chiuso nella sua camera a leggere e scrivere su un taccuino rosso. I due uomini trascorrono mesi e mesi svolgendo sempre le stesse occupazioni, fino a quando a Blue nasce il sospetto di essere lui il vero sorvegliato.

Nel terzo e ultimo elemento della trilogia, Una stanza chiusa, il protagonista viene contattato dalla moglie di un suo vecchio amico, Fanshawe, scomparso misteriosamente, affinchè decida cosa fare della monumentale opera letteraria che lui ha lasciato inedita. Leggendo gli scritti, il protagonista si immedesima a tal punto nella vita dell’amico, da sposarne la vedova e prenderne a tutti gli effetti il posto, fino a quando riceve da Fanshawe un’inaspettata lettera che lo spinge ad intraprendere una ricerca tanto ossessiva quanto irrazionale.

Pubblicati tra il 1985 e il 1987 e raccolti da Einaudi in un solo volume, i tre racconti narrano le vicende di altrettanti uomini che si muovono come fantocci comandati da oscuri burattinai, che ne dominano la volontà e li spingono alla deriva delle loro esistenze, verso una totale autodistruzione.
Nella New York di Auster, vero e proprio non luogo, non c’è spazio per l’individualità: le particolarità umane si uniformano e si appiattiscono su un piano di impersonalità e conformismo, dove tutto è confuso e uguale a se stesso.
In balia dei propri fantasmi, ognuno dei protagonisti finirà per perdersi nei meandri delle proprie visionarie ossessioni, diventando vittima di un capovolgimento di ruoli, in un labirintico gioco di rimandi e autocitazioni capace di svelare, alla fine, che i tre racconti sono in realtà un unico romanzo, tre diversi stadi di autocoscienza del narratore.

Paul Auster è abile nel creare intrecci complessi, fuorviando continuamente il lettore e negandogli ogni soddisfazione letteraria: il linguaggio è sempre volutamente asciutto e stereotipato, privo di metafore e figure retoriche, ricondotto unicamente a ciò che accade.
La necessità di attenersi ai fatti, prima regola del detective tradizionale, qui viene esasperata diventando un esercizio di stile fine a se stesso, in cui le parole coincidono con i fatti e vengono perciò spogliate di ogni velleità letteraria.
Del resto neppure la mera trasposizione dei fatti può ritenersi esaustiva e veritiera: gli antieroi di Auster non sono personaggi autorevoli, ma sono piuttosto preda di allucinazioni, alcolismo, manie persecutorie e depressive. Lo stesso scrittore all’inizio del primo racconto ammicca al pubblico inserendo nella storia il suo vero nome, rimarcando in tal modo la convenzione della finzione letteraria e invitandoci a non credere mai totalmente a quello che leggiamo.

Sarebbe quindi un grossolano errore etichettare i racconti di Auster come detective stories o, perlomeno, essi non lo sono nel senso tradizionale della definizione.
A differenza del giallo classico, infatti, qui manca del tutto l’oggettività della narrazione e, anche per questo, non riusciamo ad identificarci nelle vicende che abbiamo davanti, ma ne siamo continuamente distolti da lunghe parentesi introspettive e digressioni deliranti.

Questo escamotage è piuttosto efficace per restituirci l’immagine di una realtà spezzettata e frammentaria, in cui la ricerca della verità non approda mai a nulla e il lavoro dell’investigatore è destinato a fallire.
Tuttavia, sebbene sia un procedimento giustificato, l’inserimento nel testo di lunghe pause narrative finisce per appesantire notevolmente il racconto, spezzando il ritmo della narrazione e rendendo la lettura lenta, a tratti faticosa.
Si pensi al primo elemento della serie, Città di Vetro, il cui inizio è brillante ed entusiasmante, degno della migliore Agatha Christie, capace di catturare completamente l’attenzione del lettore e di trasportarlo direttamente nella storia.
Dopo le prime pagine però, il nostro interesse scema mentre, assieme al protagonista Quinn, cominciamo a scoprire la trama che costituisce il motore della vicenda: uno strambo giovane di nome Peter Stillmann, pallido e vestito completamente di bianco, dai capelli biondo candidi quasi albini, i movimenti meccanici da automa, il linguaggio disarticolato e artificioso, teme per la sua incolumità a causa della recente scarcerazione del padre, un anziano scienziato che, poco dopo la sua nascita, aveva tenuto il figlio segregato per anni in uno sgabuzzino con l’intenzione di scoprire quale fosse la lingua primigenia.

I temi eccentrici sono spesso il pretesto per lunghi approfondimenti didascalici di storia, religione, astronomia, musica. Si va dal resoconto di tutti gli studiosi e filosofi che nel passato hanno tentato esperimenti per scoprire quale fosse la lingua prima e originaria, alle credenze superstiziose che animavano i primi esploratori del Nuovo Mondo, dall’esame della Caduta terrestre e del racconto babelico, all’analisi del Don Chisciotte di Cervantes in chiave metafisica.

Comunque in nessuno dei racconti approdiamo ad una risoluzione del caso: tutto rimane incerto e inspiegabile perché, in un mondo determinato dal caso, non può esserci alcuna soluzione logica e anche le apparenti “prove” dell’investigation tradizionale ormai non rimandano più a nulla al di fuori di loro stesse.

Quello che rimane insomma è una contorsionistica riflessione sul rapporto tra scrittore-lettore e sulle possibilità del romanzo, infinite come i piani della realtà e le interpretazioni che se ne possono dare.

1 commenti:

Insane Bazar ha detto...

Sembra davvero un romanzo molto interessante! Lo leggerò di sicuro ;)

Miss Piggy

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