Il regno d’inverno – Winter Sleep
di Nuri Bilge Ceylan
con
Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekan
Drammatico, 196 min.,
Turchia, Francia, Germania, 2014
Turchia. Nell’Hotel Otello, struttura che come le abitazioni
limitrofe è stata scavata nella roccia di una remota regione dell’Anatolia,
vive con moglie, sorella e domestici Aydin, il proprietario, che, arrivata la
stagione invernale, passa sempre più tempo nel suo studio per poter finalmente
iniziare un trattato sul teatro turco e scrivere articoli di critica di costume
per un gazzettino locale. La sua stanza non è altro che un rifugio dal suo personale
inverno, quella stagione della vita che lo obbliga a tirare le somme della sua
esistenza. Lo aiuteranno in questo, a loro modo, la sorella, la moglie e la
famiglia del paese a cui aveva dato, per interposta persona, lo sfratto.
Nuri Bilge Ceylan scrive con la moglie la storia di una
ricerca: la ricerca del senso dell’esistenza da parte di un “uomo senza
qualità”, istruito, educato, ma ancora non abbastanza maturo per comprenderne
fino in fondo il meccanismo. Per questo indispone, risultando a chi gli sta
intorno irritante, supponente, incapace di far fronte alle proprie responsabilità
(in questo ci ricorda un po’ l’Oblomov
di Gončarov). Obiettivo ultimo del regista/sceneggiatore quello di mostrarci il
suo percorso di crescita, costruito sul confronto con tre principali soggetti:
la sorella, la moglie, il popolo. L’opera funziona soprattutto quando si
concentra su quest’ultimo rapporto che, in ultima analisi, è quello che si
dimostra più metaforico e interessante (anche se sulla società turca ne
sappiamo poco più di prima). Non è invece ben chiara la scelta di affidare buona parte della caratterizzazione del protagonista ai rapporti che lo legano alle
due figure femminili, dato che entrambe improvvisamente si eclissano, quasi senza
motivo e senza valore aggiunto, dopo essere state protagoniste di lunghissimi e
lapalissiani dialoghi (tutti concordi nel rimando a Čhecov).
Siamo di fronte ad
un’opera sì egregiamente diretta e recitata, ma nettamente bicefala (è uno di
quei casi dove la durata complessiva non è giustificata) e ad ampi tratti ampollosa,
tematicamente e dialogicamente ripetitiva, in bilico tra cinema e letteratura,
film e romanzo. Per dirla con le parole di Robert Bresson: «Impossibilità di
esprimere fortemente qualcosa con i mezzi congiunti di due arti. O è tutta una
o è tutta l’altra». Palma d’oro a Cannes 2014.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il
14 ottobre 2014)
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